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mercoledì 18 marzo 2020

Psicopandemia: la paura del Coronavirus e gli effetti psicologici su tutti noi



By SCUOLA BASILICATA
Tutti pensano al Coronavirus, ma nessuno sta ancora riflettendo sui danni psicologici della Pandemia. Ecco perché la psicologia “ai tempi del coronavirus” potrebbe assumere sfumature interessanti. Il contagio mentale è già avvenuto, tutti lo pensiamo, lo temiamo, combattiamo e sogniamo che tutto finisca in fretta. L’impatto di questo evento sulla coscienza collettiva e individuale è devastante. La “psicosi del virus” scava dentro ognuno di noi in modo diverso, ma agisce su tutti. “La peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti”(Albert Camus, La peste).
Come tutti gli eventi traumatici, significativamente stressanti che producono reazioni psicologiche e ricordi indelebili nella memoria dell’individuo, il Coronavirus ha comportato la diffusione di un marcato disagio psicologico condiviso, accompagnato da diversi effetti, ma tutti connotati da una comune matrice di base: reazione di allarme e lotta alla sopravvivenza. In ambito psicologico, il trauma è descritto come conseguenza di un evento (o di una sequenza di eventi) con caratteristiche tali da interrompere la continuità normalmente avvertita da un soggetto tra esperienza passata e momento presente.  Per essere chiamato “traumatico” l’evento deve produrre nell’individuo un’esperienza vissuta come “critica”, imprevedibile e di complessa gestione.
Il trauma, compreso quello psicologico, (dal greco τραῦμα, – ατος ossia “rottura-ferita”) è quindi un fenomeno stressante, di gravità estrema, che soverchia per la sua veemenza, l’integrità dell’individuo, nonché la sua capacità di fronteggiamento. Possiamo, quindi, definirlo  come una “frattura” che interrompe il corso naturale della nostra esistenza, sovvertendo la normale sequenza delle esperienze di vita.
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Gli psicologi, generalmente, distinguono i “piccoli traumi” detti “t” (traumi relazionali) dai grandi traumi detti “T” (eventi o esperienze che colpiscono il soggetto, o una persona a lui vicina, e che potrebbero determinarne la morte o minacciarne l’integrità fisica). La pandemia attuale, sebbene non totalmente ascrivibile al concetto di trauma psicologico o grande trauma,  come inteso classicamente dalla psicopatologia, sta producendo in tutti noi un’esperienza di minaccia, che spaventa, procura disagio e irrompe nella vita di ciascuno, compromettendone la qualità.
La popolazione mondiale sta vivendo un momento di grande allerta, di paura condivisa e di minaccia prolungata che sembra sovvertire “l’ordine naturale delle cose”, o almeno di quel tipo di ordine a cui siamo abituati.
Tutto si trasforma: si lavora da casa in modalità smart working, il contatto diventa cyber,  il Vaticano chiude le porte e persino la preghiera e le manifestazioni d’affetto diventano virtuali. D’altra parte i medici affrontano per tutti il rischio del contagio, diventano assoluti salvatori, e gli infermieri quasi superstiti. Il Covid-19, dato il suo impatto, la sua imprevedibilità e il carattere pervasivo sulla vita sociale, lavorativa e familiare, sta dunque assumendo un carattere simil traumatico. Esso sta, infatti, alterando i meccanismi tipici di regolazione emotiva, creando un disequilibrio nel funzionamento degli individui che normalmente si comportano secondo una quotidianità stabile e strutturata, e su quelli più fragili, esasperandone la loro debolezza.
In tal senso la pandemia oltre a disorganizzare tutti noi, colpisce ancor di più le persone vulnerabili in termini psichici.
La risposta  psicologica di fronte a questa minaccia, rispetto alla propria integrità e soprattutto rispetto alla limitazione della libertà che ne consegue, varia da persona a persona. D’altronde tutti gli esperti concordano sul fatto che il danno psichico del trauma dipenda non tanto dalla natura stessa dell’evento, ma dalla reazione, dalle risorse di cui ciascuno dispone e dalla percezione soggettiva di perdita esperita. All’allarme pandemico alcuni individui reagiscono con rabbia e cercano di opporsi alla situazione di costrizione; altri tollerano male la noia, la frustrazione e lo stress; i detenuti si ribellano e vogliono scappare mentre la gente comune si ritrova ingabbiata in una quotidianità asfittica. Alcuni di noi tendono a rifugiarsi in una sorta di negazione e si distaccano dall’evento; altri ancora si ancorano ai social e alle notizie che allarmano e al contempo rassicurano, in quanto portatori di un senso di appartenenza aggregante.
Chiaramente questo fenomeno avrà un impatto maggiore sulla popolazione clinica con difficoltà psicologiche. Alcune forme di nevrosi potrebbero peggiorare e la solitudine a causa della quarantena potrebbe favorire manifestazioni di ulteriore disagio, quali angoscia, fuga dalla realtà,  fenomeni di ansia, alterazione degli stati di coscienza, convinzioni ipocondriache e timori abbandonici. Viceversa, la percezione di una reale difficoltà potrebbe portare non solo le persone con un disagio psichico, ma tutti, ad arginare e mettere da parte le proprie preoccupazioni spostandosi da una prospettiva egocentrata ad una allocentrica. Per esempio, i pazienti ossessivi potrebbero disinvestire nel prevenire, neutralizzare e contrastare la minaccia e nel sentirsi essi stessi responsabili di un potenziale contagio: adesso le cose non dipendono solo da loro, e soprattutto non sono gli unici ad avere preoccupazioni di questo tipo.
Tuttavia, se da un lato, potrebbero sentirsi meno affetti da una sintomatologia psichiatrica, poiché tutti ora condividono la loro attenzione alla pulizia,  alla moralità, alla responsabilità e alla colpa di procurare un danno a se o agli altri, d’altra parte, la pandemia potrebbe confermare in loro la possibilità che il rischio della contaminazione esista, che il contagio sia dietro l’angolo, e dunque quanto “sia giusto essere vigili e scrupolosi”. I pazienti ipocondriaci o gli individui con tratti subclinici potrebbero avvertire maggiori preoccupazioni, si potrebbero iper-allarmare leggendo e sentendo parlare di nuovi contagi, iperfocalizzandosi su sensazioni o eventi che riguardano il loro corpo. L’ipocondria sembra dilatarsi e diventare un timore collettivo e condiviso. Gli individui inclini alla depressione potrebbero confermarsi il loro pessimismo ed entrare in uno stato maggiore di disperazione.
Contrariamente, gli individui con tratti paranoidi potrebbero confermarsi la loro visione dicotomica del bene e del male e tendere verso ipotesi complottiste riguardo l’origine del Coronavirus. Mentre gli ossessivi di personalità, quelli con tratti di parsimonia, potrebbero essere preoccupati rispetto ai loro risparmi e confermarsi quanto essere avari abbia dei vantaggi  e non sia assurdo preoccuparsi in vista di periodi di carestia futura. Invece i narcisisti, plausibilmente, fantasticherebbero poteri speciali, alimentando le loro credenze di immunità e grandiosità. In ultima analisi, i soggetti affetti da psicosi potrebbero disorganizzarsi ulteriormente sino e rendere maggiormente incorreggibili le loro credenze sul mondo. Eppure, in qualche modo, sembra che tutti stiamo indossando i panni dei nevrotici; tutti siamo allarmati, potenzialmente contaminati e contaminanti. La nevrosi sembra appartenere più o meno a tutti, non è più confinabile ad un gruppo ristretto di persone affette da psicopatologia. I tratti normalmente ritenuti psicopatologici diventano condivisibili, quasi normali. L’idea di essere davvero di fronte ad un pericolo reale altera e affievolisce il confine tra normalità e patologia.
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