BLOG DEI LUCANI EMIGRATI
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venerdì 12 ottobre 2018

Il Sud è il grande assente nelle politiche economiche del governo


Dopo giorni di riflessioni e analisi sulla nota di aggiornamento al Def, mi preme mettere in evidenza un aspetto ancora non indagato nella sua gravità e, purtroppo, assai significativo sull’orizzonte oscuro verso cui il Governo gialloverde vuole condurre il nostro Paese.
Mi riferisco alla completa assenza del Mezzogiorno: il documento, infatti, non prende in considerazione il Sud del Paese, dove soprattutto il Movimento 5stelle ha fatto incetta di voti annunciando svolte epocali che rimarranno parole vuote scritte sui social, senza trovare riscontro alcuno nelle norme e negli atti di Governo. Non esiste un riferimento uno a un’intera parte dell’Italia: è un’assenza strutturale che potrebbe segnare una rimozione definitiva dall’agenda delle politiche nazionali, tanto più che si abbina a eguale dimenticanza dal famoso “contratto di Governo”
L’idea che tutto si esaurisca nel reddito di cittadinanza è quanto di più sbagliato per il sud . Nessuna politica di investimento, nessun orizzonte per i masterplan posti in essere e lasciati dai governi Renzi-Gentiloni, la questione lavoro uscita dai radar.
Abbiamo già visto quali danni culturali ha prodotto l’assistenzialismo. Questo rigurgito da anni 80 esporrà le giovani generazioni del Mezzogiorno a danni permanenti e irreparabili. Però al tempo stesso siamo curiosi di vedere cosa accadrà quando l’aspettativa dei 780 euro si scontrerà con la realtà. La casa di proprietà al sud è largamente maggioritaria, così come la convivenza a casa dei genitori per larghi segmenti di popolazione senza occupazione. E questo avrà ripercussioni sulle aspettative suscitate dalle parole in libertà pronunciate dai grillini.

La quota 100 nel sud sarà a prevalente interesse del pubblico impiego. E quando si scoprirà che le penalizzazioni per l’anticipo non converranno a chi un posto comunque ce l’ha si vedrà che ad essere penalizzato sarà proprio il Mezzogiorno.
Un sud sedotto e abbandonato da chi ne ha strumentalizzato la sofferenza sociale solo per la presa della Bastiglia. Si stanno creando delle pericolose aspettative in persone in sofferenza che sono diventate “scudo umano” di promesse inattendibili.
C’è anche un elemento cinico di una politica che guarda al presente disinteressandosi del futuro. Il cronometro della verità sta correndo speditamente e forse hanno anche ragione a non temere lo spread finanziario, perché quello che segnerà la sconfitta politica di questo esecutivo pericoloso sarà lo spread tra le promesse e la realtà.
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giovedì 11 ottobre 2018

QUELLO CHE SERVE AI LUCANI : 1) POLITICHE SOCIALI


Questo articolo rappresenta il primo di una serie, in cui si cercherà, settore per settore, di identificare possibili spunti programmatici da sviluppare nella prossima legislatura regionale della Basilicata. Si inizierà dal tema delle politiche sociali.
Da un punto di vista programmatico, le politiche sociali della Basilicata sono normate dalla legge nr.4/2007, che è imperniata, fra gli altri, sui seguenti principi:
  • Una governance reticolare delle politiche sociali, che mette in relazione tutti i soggetti rilevanti in ambito sociale, creando una rete integrata di servizi sociali regionali, in cui la Regione assume un ruolo di impulso programmatorio e di finanziamento della progettualità sociale, e dove la concertazione sociale fra i soggetti assume un valore centrale nella scelta degli indirizzi strategici, nella valutazione ed eventuale riprogrammazione degli interventi;
  • La creazione di filiere integrate di servizi sociali, assistenziali, sanitari, scolastici e di inserimento lavorativo, in cui la presa in carico dei soggetti tende ad essere unitaria e personalizzata, in base alle esigenze specifiche;
  • L’approccio territoriale integrato, per piani di zona sovracomunali, nella pianificazione e gestione degli interventi;
  • La deistituzionalizzazione degli interventi, con priorità per quelli di tipo domiciliare,
  • La determinazione ed il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni sociali da erogare, in ossequio alla legge nazionale del 2000 che istituiva tale concetto, ed al nuovo articolo 117 della Costituzione introdotto nel 2001 che assegna alle Regioni la competenza per la determinazione di tali parametri.
Se la Regione Basilicata, in un certo qual modo in termini innovativi rispetto alle altre Regioni meridionali, già nel 2015-2016 ha definito le linee-guida per completare un lungo percorso, iniziato già dal 2005-2006, di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali, su sette macro-ambiti sociali.
Tuttavia, nella pratica, al netto di micro-interventi e frattaglie varie, le politiche sociali in Basilicata hanno ruotato, dall’ultimo periodo della Giunta Bubbico in poi, sul reddito di cittadinanza/inserimento, chiamato in vari modi e più volte declinato, che però ha di fatto costruito una categoria strutturale di assistiti pubblici, la platea dei beneficiari dell’ex programma Copes, poi transitati nei fatti nella cosiddetta “categoria B” del programma di reddito di inserimento proposto da Pittella, insieme agli espulsi dalla mobilità in deroga, cancellata dal decreto-Poletti, confluiti nella categoria “A” del medesimo programma.
Tali provvedimenti, a fronte di tassi di uscita per reperimento di un lavoro pressoché insignificanti, hanno prodotto una platea molto ampia di assistiti della politica, che peraltro si è andata ad aggiungere a quella storia dei Forestali. Realizzando un modello che, pure, ha una sua logica in una visione sostanzialmente difensiva di una regione in declino economico ed occupazionale, mira a salvaguardare equilibri e compatibilità sociali ed esistenziali minime. Tuttavia, già dal varo del REI (reddito d’inserimento) avviato dal Governo Gentiloni, e a maggior ragione con l’estensione di un programma di reddito di cittadinanza che è uno dei perni dell’attuale maggioranza di Governo nazionale, un programma regionale di questo genere perde rilevanza, e, se nel 2004 era una innovazione in un panorama italiano privo di tale tipologia di intervento contro la povertà, oggi diviene una duplicazione di risorse inutile e dannosa.
La frontiera delle politiche sociali regionali deve quindi spostarsi a monte rispetto agli interventi assistenziali, in una logica di prevenzione della caduta in uno stato di bisogno, e non di sostegno ex post. In questo senso, occorre riprendere la filosofia della L.R. 4/2007, attuandola pienamente. In primis, con politiche attive del lavoro efficaci per promuovere occupazione dignitosa. Da questo punto di vista, l’auspicabile potenziamento dei Centri per l’Impiego che è fra gli obiettivi del Governo nazionale dovrebbe vedere un ruolo primario della neonata Agenzia per il Lavoro regionale, con funzioni di riordino territoriale di tali uffici (mappatura della loro ubicazione ed eventuali accorpamenti, analisi delle professionalità che vi operano ed indicazione delle carenze di pianta organica). Ma deve essere il funzionamento stesso di tali strutture che deve evolvere. Non possono più operare de semplici recettori passivi di domande ed offerte di lavoro. Al contrario, devono operare in modo proattivo, sia sul versante del richiedente impiego, mettendo in piedi attività di profiling ed orientamento, sia sul versante delle imprese, tramite indagini specifiche sui fabbisogni di professionalità, anche facendo emergere quelli impliciti tramite metodi di staff scouting. In tale attività, il ruolo dei soggetti sociali (associazioni di categoria, sindacati) deve evolvere dal solo presidio della sia pur fondamentale attività di concertazione generale, verso quello di soggetti in grado, tramite il loro contatto quotidiano con le imprese sul territorio, di identificare le professionalità concretamente richieste, orientare le attività di formazione verso tali profili, assistere i lavoratori nell’attività di collocamento presso il datore di lavoro.
Così come un ruolo proattivo deve essere svolto dal sistema della formazione professionale. L’idea un po’ illuministica, contenuta nel programma Capitale/Lavoro della precedente giunta, di far scegliere al disoccupato il corso di formazione professionale che predilige, tramite un assegno spendibile presso il centro di formazione di sua elezione, sconta il fatto che, anche ammettendo che il disoccupato sia in grado di formulare una preferenza formativa (il che presupporrebbe competenze che, senza un idoneo orientamento, è difficile che possieda) i cataloghi formativi sono rigidi e prestabiliti. Occorrerebbe una rivoluzione nell’utilizzo del Fondo Sociale Europeo, in cui le risorse sono assegnate solo a quei centri di formazione in grado di documentare una effettiva domanda di lavoro di concrete imprese sul territorio, verso cui orientare il corso di formazione.
D’altro canto, occorre trovare soluzioni strutturali per l’impiego economicamente efficiente del bacino della Forestazione, ad esempio, come suggerito a suo tempo dalla UIL, tramite un’agenzia regionale che utilizzi i lavoratori forestali in progetti europei e comunque generatori di entrate.
Infine, l’area del bisogno e dell’assistenza sociale richiede cose ben specifiche: nuovi piani sociali di zona che siano imperniati non sulla pianificazione puntuale di singoli interventi, ma sulla predisposizione di filiere integrate di servizi (sociali, lavorativi, sanitari, educativi) , l’utilizzo dell’innovazione per la presa in carico degli utenti (ad esempio tramite la cartella socio-sanitaria elettronica personale), incentivi per lo sviluppo della domotica in funzione di erogazione di servizi assistenziali nel domicilio degli utenti, una formazione ed aggiornamento professionale della rete degli Assistenti Sociali.