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sabato 2 gennaio 2021

CARA AMMINISTRAZIONE COMUNALE DI SAN FELE, LA PAROLA AI CITTADINI PER IL CENTRO SOCIALE









 

COMUNE DI SAN FELE.Forum by e-mail

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EMIGRATO IGNOTO:"Sto con i piedi nel mondo e la testa in Basilicata"
                                                     

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martedì 29 dicembre 2020

MOVIMENTO GIOVANILE SOCIALISTA, CIRCOLO GAETANO SALVEMINI

By EMIGRATO IGNOTO: "Sto con i piedi nel mondo e la testa in Basilicata"

Il P.S.I., fondato sulla teoria del socialismo scientifico e sulle esperienze, della lotta di classe in Italia e in tutti i paesi del mondo, guida la lotta di emancipazione dei lavoratori per la edificazione della società socialista. Si ispira al programma del Congresso di Genova del 1892, verificata attraverso de-cenni di lotte che, hanno fatto fare ai lavoratori e a tutto il popolo grandi e sostanziali progressi.(dall’art. 1 Statuto) »

ingresso circolo 2° pianerottolo scalinata Chiesa

ISCRITTO AL PARTITO  SOCIALISTA (MOVIMENTO GIOVANILE SOCIALISTA CIRCOLO GAETANO SALVEMINI)  dal 1959:

 «17 anni e frequentavo il liceo scientific  o a Melfi ». Con la tessera di iscrizione al movimento giovanile socialista mi sono sentito forte e al riparo dalle ingiustizie e cominciai a comportarmi da grande.
ECCO LA TESSERA:

TESSERA N° 269828 RILASCIATA AL COMPAGNO Donofrio Leonardo

IL SEGR. DI SEZIONE  San Fele  ( Circolo Gaetano Salvemini )  Giacomo Sebastiano           

IL. DEL PARTITO    Pietro Nenni

 

domenica 18 ottobre 2020

Il ruolo della nobiltà oggi

 

[Sulla scia del successo del suo ultimo libro Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato ed alla Nobiltà romana (Marzorati, Milano, 1993), il prof. Plinio Corrêa de Oliveira ha rilasciato la seguente intervista al mensile francese Le Nouvel Aperçu. Tratto da Tradizione Famiglia Proprietà, anno 1, n° 1, marzo 1995.]

 

Perché ha scelto la nobiltà come tema per la sua opera?

Attualmente mi sembra che l’atteggiamento dell’opinione pubblica sulla nobiltà sia molto meno influenzato dagli errori della Rivoluzione francese di quanto non fosse fino a poco tempo fa.

Infatti oggi si può ben vedere, man mano che il tempo passa, che gli errori della Rivoluzione del 1789 vanno invecchiando e perdendo influenza. Ciò non significa che tale influenza sia piccola, ma è minore di un tempo, e tende a diminuire sempre di più. Nel momento di questa transizione storica, è interessante trattare della questione della nobiltà, che era al centro di tutte le riflessioni, di tutte le agitazioni e perfino di quasi tutti i crimini della Rivoluzione francese.

 

Quale ruolo attribuisce alla nobiltà nei nostri giorni?

Non si tratta propriamente di attribuire un ruolo alla nobiltà, ma di riconoscere questo ruolo nel panorama oggettivo della realtà contemporanea. La nobiltà ancora esiste, i suoi titoli ancora si usano, i suoi esponenti sono ancora frequentemente oggetto di speciale considerazione. E perfino, come ho poc’anzi detto, in molti ambienti il prestigio della nobiltà sta crescendo.

Orbene, in cosa consiste il ruolo della nobiltà nei nostri giorni?

Certo, non è più il ruolo che essa svolgeva anticamente, cioè quello di partecipare in qualche modo alla direzione dello Stato, sia mediante il governo dei territori nei quali quella classe esercitava un potere feudale, sia attraverso certe attività di importanza fondamentale nello Stato e nella società.

Infatti, la nobiltà una volta, in quanto classe eminentemente militare, contribuiva al reclutamento e alla formazione della classe degli ufficiali di ogni paese. La quasi totalità degli ufficiali era nobile. Alcune alte funzioni, come quelle di diplomatico e di magistrato, erano, in larga misura, pure esercitate dai nobili, il che caratterizzava pertanto la nobiltà come una classe molto potente.

L’opinione pubblica di quel tempo, non massificata dai mezzi di comunicazione sociale e da tutte le conseguenze provocate dalla Rivoluzione Industriale, possedeva in grado eminente la coscienza dell’importanza e della rispettabilità di ciascuno dei compiti svolti dalla nobiltà. Ragioni per cui si tributava a questa classe sociale un rispetto del tutto speciale.

Con la Rivoluzione francese, tutto questo mutò. Il falso dogma rivoluzionario in base al quale la suprema norma della giustizia, in materia di relazioni umane, consiste nell’uguaglianza assoluta fra gli uomini, fu accettato come vero da innumerevoli persone. La pressione ugualitaria della Rivoluzione provocò, quindi, sullo Stato e sulla società, effetti immediati e non raramente violenti, alla pari degli effetti graduali causati più dalla propaganda che dalla forza. Così, in numerosi Stati, l’ugualitarismo politico condusse a colpi di stato, che ebbero come effetto la sostituzione delle monarchie con le repubbliche, con la conseguente abolizione delle funzioni politiche della nobiltà.

In altri Stati, l’ugualitarismo progredì mediante un lento sgretolamento del potere politico dei monarchi e degli aristocratici, riducendoli ad una mera figura simbolica o quasi, come nel caso del re di Svezia e della Camera dei Lord in Inghilterra.

 

E nel campo sociale?

A tale decadenza politica seguì naturalmente una certa decadenza sociale, poiché l’esercizio del potere costituisce, di per se stesso, una fonte di prestigio sociale. Ma in questo campo le trasformazioni più importanti si dovettero a fattori scientifici ed economici. Il progresso accelerato delle scienze, iniziato alla fine del secolo XVIII e proseguito più o meno fino ai nostri giorni, favorì l’apparire di nuove tecniche, applicabili ai più vari campi del vivere umano. Conseguentemente, le tecniche di produzione agricola e di allevamento del bestiame, le industrie, l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione, di trasporto e via dicendo, influenzarono a fondo i costumi sociali.

Non solo i costumi, ma le stesse strutture sociali, poiché la scoperta di un nuovo metodo di produzione, così come l’invenzione di un nuovo rimedio per debellare alcune malattie, possono essere considerate da un popolo come avvenimenti più importanti di una vittoria militare. Così, l’invenzione dell’aereo o del telefono ebbero più importanza per gli Stati Uniti ed il mondo che molte celebri battaglie dei secoli XIX e XX.

Si aggiunga l’esercizio di professioni a volte molto lucrose, magari anche più rischiose, come quella di carattere strettamente finanziario, e si avrà un quadro del formidabile cambiamento che si determinò: da una economia a base strettamente immobiliare e, in modo speciale rurale, si passò ad un’altra soprattutto urbana, finanziaria, industriale e commerciale. E si vedrà che le attività professionali che una volta conferivano ricchezza e prestigio, furono relegate in secondo piano, a vantaggio delle nuove, che vennero a trovarsi ora in primo piano.

Di conseguenza la nobiltà, con tutto il suo inestimabile capitale di principii, di tradizioni, di stili di vita e di modi di essere, perse in molti luoghi buona parte della sua influenza, il che andò provocando un crudele danno nei confronti delle altre classi sociali, che passarono a vivere sotto l’influenza criticabile e a volte perfino ridicola dei nuovi ricchi.

Pio XII fa appello alla nobiltà perché utilizzi tutti i mezzi che le restano — senza disprezzarne nessuno — per controbilanciare queste conseguenze dannose. Il pontefice spera che essa lo faccia in un nobile sentimento di preservazione e di elevazione religiosa, morale e culturale, a beneficio di se stessa, come pure delle altre classi sociali, dal più modesto proletariato fino al culmine dei neo-nababbi.

 

Duecento anni dopo la Rivoluzione del 1789, Lei pensa che la società francese possa ancora attendersi qualcosa dalla nobiltà?

Senz’altro. La storia ci insegna che le aristocrazie si vengono a costituire in condizioni tali che consentono loro di perpetuarsi a lungo nel tempo. Duecento anni! Cosa sono per la nobiltà francese, di cui certe famiglie sono talmente antiche che la loro origine, secondo l’espressione consacrata, "si perde nella notte dei tempi"?

La condizione nobiliare non è fatta per avere la durata di una vita individuale, al contrario di ciò che avviene per i singoli e per le famiglie nelle società di carattere democratico, nelle quali, del resto, un uomo celebre può frequentemente scomparire anche prima di morire. La condizione nobiliare è fatta per avere la durata di una famiglia. E la famiglia, ereditaria per definizione, è fatta per durare secoli e secoli senza usura; anzi, essa finisce col valorizzarsi nel tempo.

Si potrebbe obbiettare che la sua domanda non si riferisce tanto alla mera durata del tempo, quanto all’usura conseguente agli avvenimenti storici dei due ultimi secoli inaugurati dalla Rivoluzione francese. E ci si potrebbe domandare se la nobiltà, dopo aver subito due secoli di rivoluzione così violentemente anti-nobiliare, non sia ormai tanto obsoleta da non avere più alcun servizio da rendere alla nazione. La storia della Francia, persino quella repubblicana, fornisce innumerevoli esempi del contrario: ci sono state personalità eminenti, che hanno reso servizi importanti al paese, nei campi più variati dell'attività pubblica.

 

Lei commenta le allocuzioni di Pio XII, ma non si potrebbe ritenere che dopo la politica conciliante nei confronti della repubblica liberale (il Ralliement) promosso da Leone XIII, la Chiesa abbia definitivamente optato per il popolo e che il ruolo della nobiltà e delle élites tradizionali sia stato relegato al passato?

La sua domanda presuppone due affermazioni che non condivido. La prima è che possa esserci una contraddizione fra l'insegnamento di due papi, Pio XII e Leone XIII. Inoltre, se si ammette, argumentandi gratiae, che una tale contraddizione esiste, non vedo perché non si possa scegliere, in tutta libertà, gli insegnamenti di Pio XII anziché quelli di Leone XIII.

 

Si può comprendere che in Europa i discendenti dei nobili di un tempo abbiano ancora un ruolo da compiere, ma che valore ha la sua "opzione preferenziale per i nobili" in paesi quali gli Stati Uniti, che mai hanno conosciuto una nobiltà e dove il supremo valore di riferimento è il denaro?

Se la ricchezza è certamente un elemento che permette di acquisire uno status sociale, gli studi sociologici più recenti ci dimostrano che non è sufficiente per diventare membro a pieno titolo dell'alta società americana.

Questo concetto di alta società basato esclusivamente sulla ricchezza fa parte di un mito liberale che si è diffuso nella coscienza popolare a partire dal secolo scorso per mezzo di opere come Democrazia in America del nobile francese Alexis de Tocqueville. Questo mito è stato ugualmente confutato da studi recenti, in quanto i sociologi ci hanno dimostrato che negli Stati Uniti si è formata una società non meno gerarchizzata che in Europa. Non vi sono titoli nobiliari; tuttavia, come in Europa, la tradizione familiare ha un ruolo predominante per assurgere a membro dell'alta società.

In assenza di titoli nobiliari, le famiglie più antiche delle diverse città e stati vengono chiamate con espressioni che mettono in rilievo la tradizione e la continuità. Così troveremo i Proper San Franciscans, i Proper Philadelphians, i Genteel Charlestonians, le First Families of Virginia, i California Dons (allusione alle famiglie discendenti dell'antica aristocrazia spagnola), i Boston Brahmins, e via dicendo. Molte di queste famiglie conservano ancora i loro palazzi e ville patriarcali.

Se osserviamo più attentamente la società americana arriviamo alla conclusione che gli Stati Uniti non sono guidati dalle masse ma dalle èlites, nuove e tradizionali. Queste ultime sono organizzate in associazioni ereditarie. Le famiglie dei nuovi ricchi, le quali dopo alcune generazioni riescono ad accedervi, devono innanzitutto impegnarsi a non ostentare sfacciatamente la loro ricchezza di fronte agli aristocratici, a volte impoveriti, e a rispetarne le tradizioni.

La più importante di queste società ereditarie è forse quella dei Cincinnati, per appartenere alla quale è necessario discendere da un ufficiale, americano o francese, che abbia lottato per almeno tre anni nella guerra d'Indipendenza o vi abbia preso parte fino alla fine; inoltre in alcuni stati può farne parte un solo membro per ogni famiglia qualificata. Questa società risale al 1783 e deve il suo nome a Quinto Cincinnato, il famoso condottiero romano che abbandonava il suo aratro per assumere il comando dell'esercito nei momenti di grave pericolo. I membri dell'associazione vollero stabilire nel paese un'autentica nobiltà militare ereditaria, e come protettore venne scelto il re Luigi XVI.

Si può affermare che tutti questi gruppi ereditari formano nell'alta società americana una élite analoga alla nobiltà titolata d'Europa.

 

E quali sono secondo Lei queste "élites tradizionali analoghe" alla nobiltà nella Francia odierna?

La delimitazione delle diverse classi in una società è un compito sempre delicato e soggetto a innumerevoli contestazioni. Per quanto riguarda l'Ancien régime, e specificamente in Francia, il pubblico in genere ha l'impressione che le classi sociali — clero, nobiltà e popolo — si distinguevano così nettamente come le linee di frontiera fra i paesi europei o americani. È un errore. Innanzitutto bisogna precisare che la nobiltà era ben lungi dal configurarsi come un corpo assolutamente omogeneo. C'erano diversi tipi di nobiltà: la nobiltà di spada, quella di toga e altre ancora, per finire forse con quella di campanile.

Certi storici parlano di più di cinque classi di nobiltà in Francia. E anche così i confini fra queste classi sono sovente imprecisi. Inoltre era facile che una famiglia passase da una classe all'altra: bastava un decreto reale che elevasse una famiglia di condizione plebea alla nobiltà, o una decisione del Re o della Giustizia che degradasse qualcuno dalla condizione di nobile a quella di plebeo. Ciò poteva accadere, per esempio, in seguito a un crimine, specialmente se si trattava di un crimine contro lo Stato come l'alto tradimento.

In una società come la nostra, in cui i principii ugualitari — "libertà, uguaglianza e fraternità" hanno contribuito a formare la struttura dello Stato e anche quella della società, questa delimitazione diventa ancora più difficile.

Comunque proverò a darne qualche nozione. L'élite di un popolo è costituita dagli elementi — singoli o famiglie — che hanno nelle loro mani le leve dello Stato e della società. In una democrazia, le élites sono essenzialmente mobili ed è molto difficile che una famiglia possa assicurarsi una durata sufficiente da potersi qualificare come tradizionale.

La nostra società ha voluto essere una società aperta, alla maniera di un corso d'acqua abbastanza profondo che riceve senza inconvenienti tutti i corsi d'acqua minori che vanno ad alimentarlo lungo il percorso. Ciò che ha voluto, la nostra società lo ha avuto. Essa assomiglia appunto a un fiume che accoglie senza discriminazione tutti i suoi affluenti. Ma questo flusso indiscriminato aumenta talmente il volume della massa liquida, con acque a volte cristalline e a volte inquinate, fino a causare straripamenti, inondazioni e inconvenienti di ogni tipo. Allora è il trionfo dell'arrivismo, di una certa concezione opportunista dell'UGUAGLIANZA. Il denaro stabilisce la sua dittatura sia utilizzando le astuzie e gli intrighi politici, sia mettendosi al loro servizio.

Tutto ciò forma un insieme di circostanze che, aggiunte alla terribile corruzione dei costumi (vigorosamente servita da una certa concezione della LIBERTA'), produce come risultato complessivo un'agitazione fatta di rivalità a tutti i livelli, dai più piccoli comuni fino alla nazione intera. Cioè, neanche l'ombra di quella FRATERNITA' laica e inconsistente che i sognatori del 1789 vollero sostituire alla carità cristiana.

Non c'è più il tradizionale desiderio di buoni figli che aspirino ad essere i continuatori dei loro buoni genitori, come gli anelli ultimi di una catena tanto forte quanto antica: tutto ciò è sparito con l'agonia delle tradizioni.

Tuttavia, pur nel bel mezzo di questa nebbia confusa e inquinata si possono costituire élites nuove ed antiche dopo aver superato una serie di ostacoli. Il fenomeno è più frequente di quanto lascino capire la gran parte dei moderni media. Nel mio libro Nobiltà ed élites tradizionali analoghe, recentemente pubblicato negli Stati Uniti dalla Hamilton Press, Lei troverà un'appendice, densa di informazioni ed analisi, sulle élites tradizionali negli Stati Uniti. A proposito di quel paese, la cui importanza nel mondo contemporaneo è impossibile negare, ecco alcuni punti affrontati in quella appendice: - Gli Stati Uniti non sono guidati dalla massa ma dalle élite nuove e tradizionali; - Le élites tradizionali oggi: una realtà sana, viva e fiorente; - Il lignaggio: nessun altro criterio, neanche la fortuna, è così determinante per conferire uno status sociale; - L'eredità dello status sociale negli Stati Uniti; - Gli avvenimenti dell'alta società americana, il ballo delle debuttanti; - L'organizzazione delle élites tradizionali nei nostri giorni; - Le associazioni ereditarie negli Stati Uniti; - Le rigorose condizioni per l'ammissione di nuovi ricchi nell'alta società, e via di seguito.

Quali sono quelle élites nella Francia odierna? Come differenziarle fra loro? Anzitutto bisogna dire che certamente queste élitesesistono, ma che le leggi ed i costumi in vigore hanno potentemente contribuito ad impedire che balzassero agli occhi della nazione. Perciò è quasi impossibile presentare una lista delle famiglie costitutive della élite francese, cosa che del resto si può dire pressoché per tutti i popoli moderni.

Questa analisi sulle élites analoghe non vale invece per la nobiltà. Ecco quello che risponderei alla sua domanda.

 

Qui, come sicuramente Lei sa, va di moda far riferimento al populismo come  ancora di salvezza, cioè si ritiene che la crisi della società contemporanea dipenda da un'eccessiva importanza attribuita alle élites e che la soluzione stia nel rivalorizzare l'uomo della strada? Che ne pensa?

Certamente fa parte della missione dello Stato e della società l'attenzione dovuta ai diritti di quella massa umana che qualifichiamo come "uomini della strada". Si tratta di uno degli obblighi prioritari dell'uno e dell'altra.

Tuttavia la sua domanda riflette una posizione strettamente ugualitaria, che considera i diritti del popolo — chiamato nel linguaggio pittoresco del Medioevo "il Popolino di Dio", oggi trasformatosi in massa — a tal punto prevalenti da non lasciare posto a nessun'altra classe. Ora, la esistenza di élites costituisce un fattore che, per se stesso, risponde a diverse necessità legittime e fondamentali del popolo. Da notare però che dico "popolo" e non "massa". Tenendo presente i concetti di "popolo" e di "massa" così come furono luminosamente spiegati da Papa Pio XII, si comprende subito e senza sforzo il ruolo delle élites:

"Popolo o moltitudine amorfa o, come si usa dire, massa, sono due concetti diversi.

1. "Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sè inerte, e non può essere mossa che dal di fuori;

2. "Il popolo vive della pienezza di vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali — al proprio posto e nel proprio modo — è una persona consapevole delle sue responsabilità e delle sue convinzioni. La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl'istinti o le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell'altra bandiera.

3. "Dalla esuberanza di vita di un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure servirsi lo Stato; nelle mani ambiziose d'una sola persona o più persone, che le tendenze egoistiche abbiano artificiosamente raggruppate, lo Stato stesso può, con l'appoggio della massa ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l'interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo menomato e la ferita è ben spesso difficilmente rimarginabile".

La complementarietà e l'interdipendenza fra le élitese le altre classi sociali da una parte, e una concezione ricca e duttile del bene comune dall'altra, sono a smentire certi pressuposti della sua domanda e allo stesso tempo le forniscono una valida risposta.

 

Dopo il crollo del muro di Berlino si assiste prima alla scomparsa dell'ancien régime comunista e dopo al ritorno dei comunisti con le elezioni in diversi paesi. C'è una situazione generalizzata di caos. Lei pensa che gli antichi "apparatchik" formano oggi una élite in questi paesi? Nella prospettiva del vostro libro, c'è una soluzione al caos? Oppure non resta che fare affidamento su una massa e una nomenklatura modellate da oltre 70 anni di comunismo?

In questa prospettiva non c'è soluzione. Il caos è realmente il triste epilogo delle diverse evoluzioni subite dal mondo comunista.

Dove andrà a finire tutto questo caos?

Ecco un problema molto diverso. La storia ci presenta parecchi casi di situazioni caotiche che finiscono con la liquidazione delle stesse componenti del caos e, a partire da ciò, con la formazione di nuove situazioni, alcune delle quali straordinariamente positive. Tuttavia, è più frequente andare incontro a destini miserevoli, tristi e infelici. Si tratta di popoli "seduti sull'orlo della morte", metaforicamente parlando.

Ciò è accaduto all'antico Egitto, alla Grecia dominata da Roma, all'India prima delle grandi navigazioni occidentali. Ed anche a quasi tutti i popoli dell'Oriente e dell'Asia.

Un probante esempio in senso inverso fu l'uscita dal caos in cui era piombato il territorio di quello che una volta fu l'Impero romano d'occidente, con l'invasione dei barbari. Era un vero e proprio caos, che tuttavia non si generalizzò a tutti i livelli. Mentre le autorità romane abbandonavano le loro funzioni e si davano a vergognosa fuga davanti all'avanzata dei barbari, le autorità ecclesiastiche, al contrario, rimanevano sul posto.

Frequentemente a rischio della vita, cominciarono ad impartire una formazione morale a questi popoli barbari che, più di una volta, mostravano notevoli tratti di innocenza e di rettitudine morale.

La Chiesa mantenne e promosse tutto quanto trovò di positivo nella moralità primitiva dei barbari, combattendo ciò che era censurabile e che costituiva un ulteriore fattore di caos; da questo amalgama, vivificato dalla forza generatrice del Vangelo, nacque il Medioevo, da cui a sua volta germinò la civiltà cristiana occidentale.

Naturalmente, sarebbe errato supporre che il caos generò da solo tutto quanto ci fu di positivo nei secoli successivi al Medioevo. Infatti, le masse barbare trovarono nell'antico territorio romano fattori incomparabili di organizzazione, di ordine, di strutturazione culturale e sociale, cioè il fermento del Vangelo capace di generare a nuova vita qualsiasi popolo. Fu il valore morale del clero che produsse il Medioevo.

Per quanto se ne sa, in tutto il mondo ex-sovietico non si notano questi fattori. La chiesa greco-scismatica, chiamata anche"ortodossa", non può essere considerata puramente e semplicemente come una valida erede della Chiesa cattolica, di cui anzi è, sotto vari punti di vista, sua oppositrice.

È noto che durante il periodo della dominazione comunista il clero di questa Chiesa, dominato dalle dottrine "ortodosse" cesaropapiste che mettevano l'organizzazione ecclesiastica sotto la direzione dello zar, si è ritenuto obbligato a prestare ubbidienza a Lenin e ai suoi successori, così come prima ubbidiva agli imperatori.

Invece di diventare un fattore di rigenerazione e di lotta contro il comunismo, questo clero si associò al regime allo scopo di sopravvivere. Quel che fece nascere il Medioevo fu esattamente la disposizione dei sacerdoti a morire anziché cedere terreno di fronte alla barbarie.

Come sia, la Chiesa greco-scismatica non può essere ritenuta un fattore sufficiente alla rigenerazione dei popoli ex-sovietici. D'altra parte, la penetrazione della Chiesa cattolica in quei territori è molto limitata per una serie di circostanze delle quali l'Occidente non ha che un'idea imprecisa.

Infine, un numero ragguardevole di cattolici che si avventurano nel mondo ex-sovietico sono quasi sempre influenzati da correnti moderniste, provenienti da un Occidente in cui la crisi della Chiesa cattolica, dovuta proprio a certo clero di matrice progressista, causa sbandamenti che conosciamo bene e che tutti deploriamo.

Sembra che gli esponenti di queste correnti non siano in alcun modo capaci di un'azione rigeneratrice. Da dove allora attenderci una soluzione? Da qualche individuo ben intenzionato e specialmente benedetto da Dio? Loro, e solo loro potranno, con l'appoggio di Roma, risollevare le sorti dell'ex-mondo comunista, "colosso" ormai in disfacimento.

Ma esistono questi individui nel mondo ex-sovietico? Credo di sì; ma in numero talmente esiguo da doverli cercare col lanternino e pregare per loro aiutandoli in tutta la misura del possibile.

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sabato 28 marzo 2020

Beniamino Bufano


È conosciuto soprattutto per le sue opere in granito. La maggior parte di esse ha come soggetto animali.
Nato a San Fele, emigrò con la sua famiglia negli Stati Uniti d'America all'età di tre anni. Passò la sua gioventù nella città di New York, fu educato da tutori privati e studiò alla Art Student League dal 1913 al 1915.
La sua prima scultura a San Francisco fu per la 1915 Panama-Pacific International Exposition, a fianco di Dirk Van Erp.
Viaggiò moltissimo prima di ritornare e fermarsi definitivamente nella San Francisco Bay Area. Insegnò al San Francisco Institute of Art ma fu sollevato dall'incarico poiché considerato troppo moderno; insegnò inoltre al UC Bertkley, al Oakland's California College of Arts and Crafts.
Tra le sue maggiori opere la statua del leader cinese Sun Yat-sen esposta nell'area di Chinatown e la scultura alta 28 metri Peace nella zona costiera Timber Grove, nei pressi di JennerCalifornia.
Esempi delle sue opere dalle loro dimensioni colossali si trovano nella zona di San Francisco Bay Area, o nel Maryland, dove nel campus della Johns Hopkins University di Baltimora c'è il Bufano Sculpture Garden.




mercoledì 18 marzo 2020

Psicopandemia: la paura del Coronavirus e gli effetti psicologici su tutti noi



By SCUOLA BASILICATA
Tutti pensano al Coronavirus, ma nessuno sta ancora riflettendo sui danni psicologici della Pandemia. Ecco perché la psicologia “ai tempi del coronavirus” potrebbe assumere sfumature interessanti. Il contagio mentale è già avvenuto, tutti lo pensiamo, lo temiamo, combattiamo e sogniamo che tutto finisca in fretta. L’impatto di questo evento sulla coscienza collettiva e individuale è devastante. La “psicosi del virus” scava dentro ognuno di noi in modo diverso, ma agisce su tutti. “La peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti”(Albert Camus, La peste).
Come tutti gli eventi traumatici, significativamente stressanti che producono reazioni psicologiche e ricordi indelebili nella memoria dell’individuo, il Coronavirus ha comportato la diffusione di un marcato disagio psicologico condiviso, accompagnato da diversi effetti, ma tutti connotati da una comune matrice di base: reazione di allarme e lotta alla sopravvivenza. In ambito psicologico, il trauma è descritto come conseguenza di un evento (o di una sequenza di eventi) con caratteristiche tali da interrompere la continuità normalmente avvertita da un soggetto tra esperienza passata e momento presente.  Per essere chiamato “traumatico” l’evento deve produrre nell’individuo un’esperienza vissuta come “critica”, imprevedibile e di complessa gestione.
Il trauma, compreso quello psicologico, (dal greco τραῦμα, – ατος ossia “rottura-ferita”) è quindi un fenomeno stressante, di gravità estrema, che soverchia per la sua veemenza, l’integrità dell’individuo, nonché la sua capacità di fronteggiamento. Possiamo, quindi, definirlo  come una “frattura” che interrompe il corso naturale della nostra esistenza, sovvertendo la normale sequenza delle esperienze di vita.
Coronavirus, Bergamo: così vengono curati i pazienti, stipati anche nei corridoi
Gli psicologi, generalmente, distinguono i “piccoli traumi” detti “t” (traumi relazionali) dai grandi traumi detti “T” (eventi o esperienze che colpiscono il soggetto, o una persona a lui vicina, e che potrebbero determinarne la morte o minacciarne l’integrità fisica). La pandemia attuale, sebbene non totalmente ascrivibile al concetto di trauma psicologico o grande trauma,  come inteso classicamente dalla psicopatologia, sta producendo in tutti noi un’esperienza di minaccia, che spaventa, procura disagio e irrompe nella vita di ciascuno, compromettendone la qualità.
La popolazione mondiale sta vivendo un momento di grande allerta, di paura condivisa e di minaccia prolungata che sembra sovvertire “l’ordine naturale delle cose”, o almeno di quel tipo di ordine a cui siamo abituati.
Tutto si trasforma: si lavora da casa in modalità smart working, il contatto diventa cyber,  il Vaticano chiude le porte e persino la preghiera e le manifestazioni d’affetto diventano virtuali. D’altra parte i medici affrontano per tutti il rischio del contagio, diventano assoluti salvatori, e gli infermieri quasi superstiti. Il Covid-19, dato il suo impatto, la sua imprevedibilità e il carattere pervasivo sulla vita sociale, lavorativa e familiare, sta dunque assumendo un carattere simil traumatico. Esso sta, infatti, alterando i meccanismi tipici di regolazione emotiva, creando un disequilibrio nel funzionamento degli individui che normalmente si comportano secondo una quotidianità stabile e strutturata, e su quelli più fragili, esasperandone la loro debolezza.
In tal senso la pandemia oltre a disorganizzare tutti noi, colpisce ancor di più le persone vulnerabili in termini psichici.
La risposta  psicologica di fronte a questa minaccia, rispetto alla propria integrità e soprattutto rispetto alla limitazione della libertà che ne consegue, varia da persona a persona. D’altronde tutti gli esperti concordano sul fatto che il danno psichico del trauma dipenda non tanto dalla natura stessa dell’evento, ma dalla reazione, dalle risorse di cui ciascuno dispone e dalla percezione soggettiva di perdita esperita. All’allarme pandemico alcuni individui reagiscono con rabbia e cercano di opporsi alla situazione di costrizione; altri tollerano male la noia, la frustrazione e lo stress; i detenuti si ribellano e vogliono scappare mentre la gente comune si ritrova ingabbiata in una quotidianità asfittica. Alcuni di noi tendono a rifugiarsi in una sorta di negazione e si distaccano dall’evento; altri ancora si ancorano ai social e alle notizie che allarmano e al contempo rassicurano, in quanto portatori di un senso di appartenenza aggregante.
Chiaramente questo fenomeno avrà un impatto maggiore sulla popolazione clinica con difficoltà psicologiche. Alcune forme di nevrosi potrebbero peggiorare e la solitudine a causa della quarantena potrebbe favorire manifestazioni di ulteriore disagio, quali angoscia, fuga dalla realtà,  fenomeni di ansia, alterazione degli stati di coscienza, convinzioni ipocondriache e timori abbandonici. Viceversa, la percezione di una reale difficoltà potrebbe portare non solo le persone con un disagio psichico, ma tutti, ad arginare e mettere da parte le proprie preoccupazioni spostandosi da una prospettiva egocentrata ad una allocentrica. Per esempio, i pazienti ossessivi potrebbero disinvestire nel prevenire, neutralizzare e contrastare la minaccia e nel sentirsi essi stessi responsabili di un potenziale contagio: adesso le cose non dipendono solo da loro, e soprattutto non sono gli unici ad avere preoccupazioni di questo tipo.
Tuttavia, se da un lato, potrebbero sentirsi meno affetti da una sintomatologia psichiatrica, poiché tutti ora condividono la loro attenzione alla pulizia,  alla moralità, alla responsabilità e alla colpa di procurare un danno a se o agli altri, d’altra parte, la pandemia potrebbe confermare in loro la possibilità che il rischio della contaminazione esista, che il contagio sia dietro l’angolo, e dunque quanto “sia giusto essere vigili e scrupolosi”. I pazienti ipocondriaci o gli individui con tratti subclinici potrebbero avvertire maggiori preoccupazioni, si potrebbero iper-allarmare leggendo e sentendo parlare di nuovi contagi, iperfocalizzandosi su sensazioni o eventi che riguardano il loro corpo. L’ipocondria sembra dilatarsi e diventare un timore collettivo e condiviso. Gli individui inclini alla depressione potrebbero confermarsi il loro pessimismo ed entrare in uno stato maggiore di disperazione.
Contrariamente, gli individui con tratti paranoidi potrebbero confermarsi la loro visione dicotomica del bene e del male e tendere verso ipotesi complottiste riguardo l’origine del Coronavirus. Mentre gli ossessivi di personalità, quelli con tratti di parsimonia, potrebbero essere preoccupati rispetto ai loro risparmi e confermarsi quanto essere avari abbia dei vantaggi  e non sia assurdo preoccuparsi in vista di periodi di carestia futura. Invece i narcisisti, plausibilmente, fantasticherebbero poteri speciali, alimentando le loro credenze di immunità e grandiosità. In ultima analisi, i soggetti affetti da psicosi potrebbero disorganizzarsi ulteriormente sino e rendere maggiormente incorreggibili le loro credenze sul mondo. Eppure, in qualche modo, sembra che tutti stiamo indossando i panni dei nevrotici; tutti siamo allarmati, potenzialmente contaminati e contaminanti. La nevrosi sembra appartenere più o meno a tutti, non è più confinabile ad un gruppo ristretto di persone affette da psicopatologia. I tratti normalmente ritenuti psicopatologici diventano condivisibili, quasi normali. L’idea di essere davvero di fronte ad un pericolo reale altera e affievolisce il confine tra normalità e patologia.
Coronavirus, varato il decreto “Cura Italia” da 25 miliardi

domenica 1 marzo 2020

San Fele.Il nucleo della città ebbe origine nel 969 d.C.

"In epoca antica, il territorio di San Fele fu abitato dagli Ausoni, che lasciarono diverse testimonianze nel circondario del comune. Il nucleo della città ebbe origine nel 969 d.C., con l'edificazione di un castello fortezza, voluto da Ottone I di Sassonia per avvistare e fronteggiare eventuali assedi da parte dei Bizantini e, circa un secolo dopo, iniziarono a sorgere intorno al presidio i primi centri abitati. Il quartiere sviluppatosi lungo le pendici del Monte Castello è stato rinominato "Rione Costa".

San Fele, quartiere Costa
Il castello fortezza era "di forma bislonga e fabricato a guisa di un vascello [...] Federico II lo strinse anchora, e per renderlo del tutto inespugnabile, e lo fiancheggiò di alcune mezze lune e torrioni"; questo è quanto riportato nella relazione di Ardoini del 1674[7], ma al tempo in cui scriveva era "quasi distrutto e con la sola prospettiva di mura".
Nel 1036, alcuni ribelli milanesi che osteggiavano l'arcivescovo di Milano furono confinati a San Fele e, liberati da Corrado II, rimasero ivi a causa dell'epidemia che colpì Milano. Gli esuli milanesi si imparentarono con le popolazioni della vicina valle di Vitalba, formando le prime famiglie della città. Per porre fine allo scontro tra normanni e papato, San Fele ospitò Ruggero II e il papa Onorio II, ove iniziarono a stipulare i primi accordi di pace. Sotto la dominazione angioina, la città fu affidata ai feudatari Giovanni Gaulard, Drogone di Beaumont, Guglielmo di Melun.
Dal 1432 il feudo di San Fele fu amministrato da Troiano Caracciolo, 1º duca di Melfi, e dai suoi successori fino al 1613, quando subentrò la famiglia Doria, che mantenne la proprietà fino al 1811. Nel frattempo il terribile terremoto del 1456 aveva sconvolto San Fele, danneggiando la chiesa di Pierno.
Nel 1799 la popolazione innalzò l'Albero della libertà. L'euforia per la nuova era, la Repubblica Napoletana (1799), svanì presto e molti furono giustiziati.
All'indomani dell'unità d'Italia, tutta la zona fu coinvolta nel brigantaggio e famosi briganti come Giovanni Fortunato, detto "Coppa", Vito Di Gianni, detto "Totaro" e Francesco Fasanella, detto "Tinna", si distinsero come luogotenenti del famigerato capomassa Carmine Crocco.
Come tutti i paesi del Mezzogiorno, San Fele ha subito una forte emigrazione, che si può suddividere in due fasi:
Tuttavia, ulteriori motivazioni che spinsero molti cittadini di San Fele ad abbandonare la propria terra e che presentavano carattere prettamente locale, generarono da due eventi geofisici di particolare gravità:
  • le frane del 1968[8], che colpirono la parte nord orientale del paese spazzando via un cospicuo nucleo di case abitate;
  • il terremoto dell'Irpinia del 1980, che lasciò senzatetto 634 persone, ovvero circa il 10% della popolazione[9];
Rilevante la presenza di Sanfelesi in Australia ed in particolare nella città di Sydney ove si contano ormai più persone (oltre 3000) rispetto al paese di origine.
L'emigrazione degli ultimi anni è costituita da giovani che raggiungono le più importanti città italiane (in particolare TorinoMilanoFirenze, e Roma)."